Gianluca Vialli: «Un maglione sotto la camicia per nascondere la malattia»

L’ex calciatore: sto bene, ma non so come finirà la partita. «Mancini? Per me resta un fratello. Sono stato fortunato: ho corso per lui, Zola, Baggio e Del Piero»

fonte corriere.it

Luca Vialli, lei è sempre stato un calciatore un po’ sui generis.
«E perché mai?»

Famiglia benestante, uso del congiuntivo. E ora pubblica il secondo libro.
«Guardi che io sono cresciuto all’oratorio, come tutti. Non c’era la playstation, la tv aveva un solo canale. Sono della generazione di Carosello. E come tutti ho imparato dai preti a giocare a pallone; a patto di frequentare anche il catechismo».

Da ragazzo cosa votava?
«Partito repubblicano, come papà».

Cosa faceva suo padre?
«Costruiva prefabbricati. Sono il più piccolo di cinque figli: Mila, Nino, Marco, Maffo».

Che nome è Maffo?
«Il nome di un antenato. Siamo originari di Cles, in Trentino. Eravamo sotto l’Austria».

Nella Seconda Repubblica cosa votava?
«Per fortuna ero già a Londra. La Seconda Repubblica me la sono risparmiata».

E adesso?
«Guardo i politici litigare, strillare, twittare furiosamente, e non capisco. In Inghilterra, se un politico si comporta in modo scorretto, si dimette e chiede scusa. È un mix di disciplina e libertà: si pagano le tasse, si fa la coda, ci si ferma alle strisce pedonali».

Esordio nel Pizzighettone, poi la Cremonese. Insomma, non il Real Madrid.
«La Cremonese resta la mia squadra del cuore. Da bambino però tifavo Inter».

La voleva la Juve.
«Non ero ancora pronto. Il presidente Mantovani mi spiegò il progetto della Samp. Che poteva aspettarmi».

A Genova trovò Mancini. Siete ancora amici?
«Fratelli. Quando hai la stessa età e hai condiviso per tanti anni il campo di battaglia, puoi stare molto tempo senza sentirti, ma il rapporto rimane per sempre».

È vero che Mantovani aveva due cani, uno di nome Gianluca e l’altro Roberto?
«Non so se esserne contento, ma è vero».

Vinceste il primo e ultimo scudetto nella storia della Samp.
«Crescemmo passo a passo. La coppa Italia. La finale di Coppa delle Coppe, persa. La finale di Coppa delle Coppe, vinta. E poi il 1991, l’anno dell’impresa».

Oltre ad Agnelli la cercò il Milan di Berlusconi.
«E il Napoli di Maradona».

Perché rimase a Genova?
«Ogni volta Mantovani mi chiamava in ufficio, e mi spiegava la sua missione: sfidare lo status quo, ribaltare le gerarchie del calcio. Quando uscivo mi pareva di camminare sulle acque. Ero innamorato di lui, della squadra, dell’ambiente».

Però finì alla Juve: lo status quo.
«Dopo lo scudetto arrivammo in finale di Coppa dei Campioni con il Barcellona. Sapevo già che sarebbe stata l’ultima volta con la Samp. Perdemmo 1 a 0. Per quattro anni ho rigiocato quella partita nei miei incubi».

Era il 1992: l’ultima Juve di Boniperti e Trapattoni.
«Due grandi. Boniperti lo sento ancora adesso, per gli auguri di compleanno. Duro, esigente, ma giusto».

E il Trap?
«Era abituato a gestire il cavallo più forte; ma allora con il Milan si correva per il secondo posto. E questo il Trap non poteva accettarlo».

Com’è giocare nella Juve?
«Un onore, e un onere. Senti il peso della maglia, il dovere di riconsegnarla piegandola per bene e riponendola un po’ più in alto di dove l’avevi presa. E poi Torino, che aveva fama di città fredda e grigia, in realtà è meravigliosa».

A guastare la poesia arrivò Moggi. Com’era?
«Un dirigente che ti metteva nelle condizioni di dare il massimo; e i calciatori pesano i dirigenti da questo. Non dal mercato o dalla politica».

La gestione Moggi costò alla Juve la serie B.
«Quella Juve avrebbe potuto vincere 6 o 7 scudetti su 10, rispettando le regole. Ma poi la gola ha fatto sì che tentasse di vincerli tutti, non rispettando le regole».

Ma lei ha mai avuto la sensazione che gli arbitri vi favorissero?
«No. Ne ho anche discusso con i colleghi. Vede, un calciatore tende sempre a pensare che gli arbitri stiano complottando contro la sua squadra. A volte diventa uno sprone a reagire e dare il meglio».

Lei fu testimone al processo per doping. La Juve fu assolta, ma venne fuori un largo uso di farmaci.
«Posso parlare per me. Avrei potuto vivere più serenamente quella vicenda, come altri colleghi. Non ce l’ho fatta. Fu un’ingiustizia».

Zeman indicò lei e Del Piero.
«Non voglio riaprire vecchie polemiche. È possibile discutere se sia meglio per una distorsione dare il Voltaren, o andare 15 giorni in montagna a riposare. Non è possibile mettere in dubbio i risultati di una carriera. All’inizio ci ho sofferto. Poi ho capito che se ti preoccupi di quello che pensano gli altri appartieni a loro».

Alla Juve prendevate anche la creatina.
«Per qualche mese. Come tutti. Lecitamente».

In due anni vinceste lo scudetto e, nel 1996, la Champions.
«Finale all’Olimpico di Roma. Segna subito Ravanelli, pareggia Litmanen. Grande partita, finita ai rigori. La chiude Jugovic segnando il quarto».

Lei quale doveva tirare?
«Il quinto o il sesto. Fu un sollievo infinito. All’Olimpico avevo sbagliato un rigore al Mondiale del ’90 contro gli Stati Uniti, e mi ero rotto un piede tirandone un altro contro la Roma. Quella notte sapevo che era la mia ultima occasione per vincere la Champions. Pensi gli incubi, se no».

È stata l’ultima Champions per la Juve. È una maledizione?
«No. È la pressione. Non è facile trovare l’equilibrio tra tensione e serenità, nella consapevolezza che puoi anche perdere. Se poi hai contro Messi e Cristiano Ronaldo…».

Chi è il più grande contro cui ha giocato?
«Il Maradona di Messico ‘86: avevo 22 anni, provavo soggezione per Bearzot e il suo carisma. C’erano Zico, Platini, Gullit, Van Basten, Matthaeus».

Il più forte con cui ha giocato?
«Sono stato un centravanti fortunato. Ho corso per Mancini, Zola, Baggio, Del Piero».

Lei fece un grande Europeo nell’88, e un Mondiale modesto nel ’90.
«Tre assist, nessun gol. Ogni Mondiale ha una stella nascente, che fu Schillaci, e una stella cadente. Che ero io. Me ne capitarono di tutte: il polpaccio, la coscia, la bronchite… Però la Nazionale di Vicini resta la più divertente e spensierata di sempre».

Con Sacchi non legaste.
«Fu uno scontro di personalità. Ero abituato a dire quel che pensavo: con lui l’equilibrio tra tensione e serenità non c’era. Mi escluse, convinto che i miei dubbi avrebbero creato energie negative nel gruppo; e aveva ragione. Sbagliai io a rifiutare, quando per due volte mi richiamò, prima e dopo il Mondiale del ’94. Feci il permaloso. La maglia azzurra non si rifiuta mai».

E Lippi?
«Il mio messia. Al primo colloquio gli dissi che volevo lasciare la Juve. Mi rispose: “Proprio ora che arrivo io e ho bisogno di te?”».

Dopo la Champions se ne andò davvero. Perché?
«Avevo 32 anni, mi offrirono il rinnovo di un anno solo. Io sognavo l’Inghilterra e la premiership. Mi chiamò il Chelsea».

Del Chelsea è stato anche manager. E ora ha scritto un libro per Mondadori: «Goals. 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili».
«Come manager la mia preoccupazione è stata creare una cultura: ambiente di lavoro moltiplicato per i valori. Poi arriva un momento in cui ti trovi all’incrocio, e devi scegliere in quale direzione andare. Ho iniziato a scrivere il libro per aiutare le persone a trovare la strada giusta. Così ho raccolto alcune frasi motivazionali, alcuni mantra, intervallandoli con storie di grandi sportivi, che aiutano a capire. Perché le citazioni non funzionano, se non sei tu che funzioni».

La novantanovesima storia è la sua. Che finora nessuno conosceva. L’esperienza della malattia. Il cancro.
«Ne avrei fatto volentieri a meno. Ma non è stato possibile. E allora l’ho considerata semplicemente una fase della mia vita che andava vissuta con coraggio e dalla quale imparare qualcosa. Sapevo che era duro e difficile doverlo dire agli altri, alla mia famiglia. Non vorresti mai far soffrire le persone che ti vogliono bene: i miei genitori, i miei fratelli e mia sorella, mia moglie Cathryn, le nostre bambine Olivia e Sofia. E ti prende come un senso di vergogna, come se quel che ti è successo fosse colpa tua. Giravo con un maglione sotto la camicia, perché gli altri non si accorgessero di nulla, per essere ancora il Vialli che conoscevano. Poi ho deciso di raccontare la mia storia e metterla nel libro».

L’intervento, otto mesi di chemioterapia, sei settimane di radioterapia. Come sta ora?
«Bene, anzi molto bene. È passato un anno e sono tornato ad avere un fisico bestiale (Vialli ride). Ma non ho ancora la certezza di come finirà la partita. Spero che la mia storia possa servire a ispirare le persone che si trovano all’incrocio determinante della vita. E spero che il mio sia un libro da tenere sul comodino, di cui leggere una o due storie prima di addormentarsi o al mattino appena svegli. Un’altra frase chiave, di quelle che durante la cura mi appuntavo sui post-it gialli appesi al muro, è questa: “Noi siamo il prodotto dei nostri pensieri”. L’importante non è vincere; è pensare in modo vincente. La vita è fatta per il 10 per cento di quel che ci succede, e per il 90 per cento di come lo affrontiamo. Spero che la mia storia possa aiutare altri ad affrontare nel modo giusto quel che accade».

Lei scrive: «Se molli una volta, diventa un’abitudine».
«Vorrei che qualcuno mi guardasse e mi dicesse: “È anche per merito tuo se non ho mollato”».

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